LAVORO. RETRIBUZIONE. PRESCRIZIONE.

LAVORO. RETRIBUZIONE. PRESCRIZIONE.

LAVORO.

RETRIBUZIONE. PRESCRIZIONE.

APPUNTI CRITICI SU CASS. 6/9/2022 N. 26246 E CASS. 20/10/2022 N. 30957 IN TEMA DI DECORRENZA DELLA PRESCRIZIONE DEI CREDITI RETRIBUTIVI.

Con le due “note” sentenze, in epigrafe, redatte in copia-incolla, la Cassazione ha per la prima volta affermato il principio della non decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore in costanza dei rapporti di lavoro non assistiti dalla tutela reintegratoria, già prevista in via generale dall’art. 18 Stat. Lav. nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della Legge Fornero (L. 92/2012).

Pertanto, i crediti di lavoro maturati dopo il 18 luglio 2012, non si estinguono per prescrizione, se non dopo cinque anni dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Le sentenze in esame ripercorrono la storia giudiziaria della vicenda prescrittiva, prendendo le mosse dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 63/1966, che per la prima volta aveva affermato il principio della necessità di tutelare integralmente il diritto irrinunciabile alla retribuzione, escludendo la decorrenza della prescrizione (che vale come rinuncia implicita), durante lo svolgimento del rapporto, a motivo dell’ostacolo materiale all’esercizio del diritto del lavoratore al credito retributivo, rappresentato dalla paura del licenziamento.

Nessun dubbio che tale principio e la sua conformazione siano ancora attuali e intangibili.

Il tema è che nel corso degli anni la tutela dalla paura del licenziamento (si rammenta che nel 1963 esso era legittimamente esperibile ad nutum e con il semplice preavviso, ex art. 2118 c.c.), si è estesa e ampliata fino alla tutela dalla paura di perdere il posto di lavoro e la sua conservazione, in conformità al mutato sentire sociale e legislativo che, non solo ha previsto limiti di esercizio al licenziamento e conseguenti sanzioni, ma ha esteso e ampliato la tutela nei confronti del licenziamento esercitato fuori da quei limiti, prevedendo in via generale il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro (Art. 18 L. 300/1970 testo originario, per le imprese sopra i 15 dipendenti).

Quindi la tutela del salario è stata ampliata, visto che il licenziamento faceva sempre meno paura, prevedendosi sempre la reintegrazione nelle ipotesi in cui il lavoratore fosse stato licenziato ingiustamente, anche in reazione al fatto di aver formulato legittime richieste retributive.

Questo era il sentiment dopo lo Statuto dei Lavoratori, tanto che si è affermato il principio che la prescrizione del credito retributivo decorreva in corso di rapporto, soltanto quando il tipo di rapporto di lavoro fosse assistito dalla c.d. stabilità, che è stata in quell’epoca sostanzialmente equiparata alla tutela reintegratoria (“… dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare…” così Corte Cost. 174/1972, richiamata e onorata dalle sentenze in commento).

E su questo concetto di stabilità la Cassazione ha incentrato uno dei suoi due pilastri argomentativi a favore dell’affermata decorrenza della prescrizione solo alla cessazione del rapporto di lavoro, quando questo non sia assistito dalla tutela reintegratoria, e cioè praticamente in tutti i rapporti di lavoro, per effetto della residualità e recessività della tutela reintegratoria operata a partire dalla L. 92/2012 (Nuovo articolo 18 Stat. Lav.) e più ancora dal D.Lgs. 23/2015 (Contratto a tutele crescenti).

Ma la Cassazione ha volutamente omesso di considerare, che il sentiment sulla tutela del lavoro e del salario, sulla paura del licenziamento e sul diritto alla conservazione del posto di lavoro, nel frattempo era ed è mutato.

E con esso il diritto alla stabilità del posto, che secondo successive pronunce della Corte Costituzionale, citate solo “parzialmente” dalle Cassazioni in commento,

non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme, e quindi si risolve interamente nel diritto (potestativo) di impugnare il licenziamento illegittimo …” (Corte Cost. 268/1994; Corte Cost. 194/2018).

D’altro canto, nell’ambito di detto mutato sentire, la Corte Cost. n. 46/2000, autorizzando il referendum abrogativo dell’art. 18 (nella sua originaria versione reintegratoria), aveva affermato che la piena tutela del diritto al lavoro, pur secondo l’indirizzo di garanzia di cui agli artt. 4 e 35 Cost., volto ad individuare temperamenti e limiti al potere di recesso datoriale e conseguenti rimedi, era rimessa alla scelta discrezionale del legislatore quanto a tempi e modalità, e soprattutto che la tutela reintegratoria, era soltanto uno dei molti possibili paradigmi per attuare tali principi, posto che “la garanzia del diritto al lavoro, risulta ricondotta, nelle discipline che attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella obbligatoria, al criterio di fondo della necessaria giustificazione del licenziamento”, peraltro così come sancito dalla Carta Sociale Europea (Art. 24) ratificata con la legge 9 febbraio 1999, n. 30.

La sentenza Corte Cost. n. 194/2018 ha inoltre ritenuto che l’indennità prevista dalla legge in caso di licenziamento illegittimo, rappresentasse anche un adeguato strumento per attuare il principio di dissuasione del datore di lavoro ad elevare un licenziamento ingiustificato, secondo l’indirizzo giurisprudenziale comunitario in applicazione dell’art. 24 della Carta Sociale Europea richiamata.

E l’attuazione del principio di dissuasione, porta con sé, come conseguenza logica, la rimozione di quell’ostacolo materiale, rappresentato dalla “paura del licenziamento”, che costituiva il fondamento della non decorrenza della prescrizione in corso di rapporto, secondo Corte Cost. n. 63/1966 e successive conformi

Di questa mutata nozione del diritto alla stabilità, le recenti Cassazioni non hanno evidentemente tenuto conto; tale diritto ricorre infatti, non già, esclusivamente, se sia prevista la tutela reintegratoria, ma anche se siano previsti limiti e condizioni all’esercizio del recesso da parte del datore di lavoro, e poteri impugnatori da parte del lavoratore nonché accertativi della (il)legittimità del recesso da parte dell’Organo Giudiziario, ciò che l’attuale sistema normativo – art. 18 Stat. Lav. nel testo oggi vigente, e artt. 1-4 D.Lgs. 23/2015 – assicura integralmente.

Il secondo pilastro su cui le Cassazioni in commento basano l’affermato principio di non decorrenza della prescrizione in corso di rapporto, è la necessaria predeterminazione dei presupposti sottesi all’esercizio del diritto retributivo, in nome del principio della certezza del diritto e dei rapporti giuridici su cui l’istituto della prescrizione si fonda, e ciò sia nell’interesse del lavoratore che deve poter prevedere e conoscere in anticipo le forme, i limiti e i tempi di esercizio dei suoi diritti, sia nell’interesse dell’impresa e degli investitori, che debbono poter prevedere e programmare i costi, gli oneri e i rischi economici dell’attività economica e dei rapporti di lavoro in essa innestati e implicati.

E di conseguenza, secondo il ragionamento della Suprema Corte, non può realizzare questa finalità, e non può considerarsi quale sufficiente strumento di esclusione della “paura” di esercitare il diritto retributivo, con conseguente ritenuta decorrenza della prescrizione, il meccanismo di tutela predisposto dall’ordinamento all’art. 18 comma 1 Stat. Lav. (testo vigente) e all’art. 2 comma 1 D.Lgs. 23/2015,  e cioè la tutela reintegratoria prevista per i casi di licenziamento ritorsivo, perché mancherebbe nella fattispecie, la necessaria predeterminazione della situazione di tutela, in quanto la sussistenza dell’effettivo e sottostante intento ritorsivo a fronte di un licenziamento formalmente giustificato, si avrebbe solo ex post e solo dopo l’accertamento operato dal giudice “caso per caso”, ciò che contraddirebbe il principio di precognizione ex ante che supporta la certezza del diritto, a sua volta fondamento della prescrizione estintiva.

Il ragionamento, si permetta, è capzioso.

Infatti, non solo nel caso di licenziamento ritorsivo, ma anche in tutti i casi di licenziamento illegittimo, anche quelli precedentemente soggetti a reintegrazione, il recesso viene ammantato e accompagnato da una “formale” giustificazione, apparentemente legittima, che poi soltanto all’esito dell’accertamento di fatto, ex post e caso per caso, operato dal giudice, si può rivelare insussistente, allo stesso modo in cui, nel caso di licenziamento ritorsivo, si accerta che il motivo formale che accompagna il licenziamento è soltanto apparente e simulato, e che l’unico motivo determinante ed esclusivo del recesso è stato l’ingiusta reazione all’esercizio di un legittimo diritto del lavoratore.

E allora dovremmo dire che in tutti i casi di licenziamento illegittimo difetta una tutela predeterminata e preconoscibile, e che pure il vecchio regime di c.d. stabilità che tanto sta a cuore alla Cassazione, sarebbe stato inidoneo a supportare la decorrenza della prescrizione in corso di rapporto.

In realtà, anche tenendo dietro al ragionamento della Cassazione, nella parte in cui ritiene indispensabile la completa rimozione degli effetti del licenziamento illegittimo, per far applicare il meccanismo di decorrenza della prescrizione (tesi peraltro sopra qui confutata), va osservato che la predeterminazione della tutela va valutata appunto ex ante e in astratto, e ciò ricorre quando una determinata fattispecie illecita di licenziamento, generale ed astratta, sia prevista per legge, e sia assistita dalla completa rimozione dei suoi effetti, come infatti è la fattispecie del licenziamento ritorsivo (ovviamente poi la sussistenza in fatto dell’illecito, va accertata giudizialmente e caso per caso, senza con ciò eliminare alcuna predeterminazione).

E la certezza e la predeterminazione della “adeguata tutela”, nell’ipotesi di licenziamento ritorsivo, sono rafforzate dalla considerazione che solo con la Legge 92/2012 essa ha avuto per la prima volta un riconoscimento normativo e formale, visto che la precedente versione dell’art. 18 non la contemplava ed era, allora sì, incerta e non predeterminata, in quanto istituto di mera creazione giurisprudenziale, e come tale soggetto all’identificazione “caso per caso”.

Va poi aggiunto che, al contrario delle liriche premesse formulate dalla Cassazione in punto di interesse dell’impresa datrice di lavoro a conoscere e programmare all’inizio del rapporto le possibili ricadute economiche, a limitazione dell’incertezza degli investimenti, la decorrenza della prescrizione solo al momento della cessazione del rapporto produce per gli imprenditori proprio l’effetto opposto, in quanto – senza alcuna possibilità di precognizione e previsione –  l’imprenditore  si può trovare a fronteggiare, ad esempio, una pretesa all’inquadramento superiore e alle correlate differenze retributive, magari dopo un silenzio ultradecennale da parte del lavoratore, rispetto all’ignota o comunque non valutata maturazione del diritto, rimanendo nella più completa incertezza, esposto ad esborsi molto significativi in modo improvviso e imprevisto, senza alcuna possibilità di approntare accantonamenti, riserve contabili o simili, ciò che potrebbe determinare effetti addirittura nefasti sulla persistenza in vita dell’azienda.

D’altro canto, per le stesse necessità di certezza giuridica e con gli stessi obiettivi, una volta rivalutato lo scenario e il bilanciamento di interessi tra le parti, lo stesso legislatore è intervenuto nel 2010 (L. 183, art. 32), ad evitare che il datore di lavoro restasse in bilico (fino al limite della prescrizione quinquennale) sulla decisione del lavoratore di impugnare o meno il licenziamento, introducendo precisi termini di decadenza per la contestazione stragiudiziale e per l’impugnazione giudiziale.

Pertanto, sarebbe opportuno un ripensamento da parte della giurisprudenza anche sulla tematica della decorrenza dei crediti retributivi del lavoratore maturati dopo l’entrata in vigore della Legge 92/2012 e del D.Lgs. 23/2015.

Avv. Luca D’Andrea